Carimate 63, una seggiola di vico magistretti

Tra il 2000 e il 2010 ho collaborato, a vario titolo, con alcune riviste di architettura e design.

Era ancora l’epoca nella quale le riviste si leggevano sulla carta e noi architetti venivamo coinvolti nella redazione di articoli, nell’organizzazione dei piani editoriali e, a volte, anche nella direzione artistica di quei libroni, belli da sfogliare e a volte anche da leggere, che uscivano in edicola con cadenza mensile.

 

Periodo colmo di impegni dai quali, in silenzio e dopo aver verificato che tutto procedeva, mi sfilavo il venerdi mattina per rintanarmi in casa a scrivere e nelle redazioni fino a tarda serata a discutere di cosa bisognasse parlare o ancora, per me era il massimo, andando in giro per Milano e provincia in cerca di storie, progetti, tendenze.

 

Poi arrivò l’editoria digitale

Si pensò che bastasse una cartella stampa per fare un bel pezzo o, peggio ancora, una bella rivista.

Disorientati dall’effervescenza dei social, spesso abusati, molti editori smarrirono la strada e tradussero la figura del giornalista in quella del ‘content creator’.

Fu inutile mettere in guardia sulla deriva che stava montando, provare a discriminare tra cultura editoriale e contenitori di news.

 


 

Tornando con la memoria al periodo antecedente a quella squallida fase paleo-digitale salvo alcuni rari momenti che mostrarono, fin da allora, la forza dei fatti che segnano inizio e fine di un’epoca, occasioni illuminanti per provare a capire cosa ci aspettava.

Uno di questi fatti, come spesso accade legato a una specifica esperienza di una specifica persona, fu il colloquio con Vico Magistretti nello studio in via Bellini a Milano.

 

Un venerdì pomeriggio appunto, attraverso con lo sguardo i giardini di platani di via Mascagni, svolto in via Conservatorio e poi in Bellini.

Trovo l’anziano maestro, maglioncino di cachemire a tinte accese, nella sua stanza che mi chiede se voglio un tè. Ben presto il suo sguardo si accende di un sorriso che, forse, stima con dolcezza il corso d’anni che ci divide. Con davanti il modellino della Carimate del 63 iniziamo a parlare di cosa sia il design oggi (2003).

 

Allenato alle lezioni di Castiglioni che non perdeva occasione per metterci in guardia dalla voracità del cliente che chiede tutto, presto e a poco, mi aspetto un discorso di prospettive del tipo: prima era così e ora è così. Da compassato gentleman, invece, inizia semplicemente a raccontarmi la storia di quella seggiola in faggio utilizzandola, ho realizzato dopo, per fare un ritratto sintetico di un’epoca del design che non esisteva più.

 

Non mi parla dei Fratelli Comi che brevettarono, per primi, la seggiola ma parte da Cesare Cassina che un giorno – dice – mi chiede di disegnare una sedia per una club house. Guardando intorno, posando lo sguardo calmo sui mille oggetti nelle scaffalature, mi spiega come si fosse messo subito a schizzare delle idee e, scelta quella che piaceva di più, come si fosse divertito a lavorare nel laboratorio dei falegnami che misero giù il primo prototipo. Come l’oggetto fosse letteralmente ‘mutato’ una volta che il faggio era stato laccato nel suo rosso.

 

Alla domanda se c’entrasse il golf o altro con quella commessa che cambiò, per sua stessa ammissione, la sua vita professionale cade in silenzio per qualche secondo, come per riandare a quell’epoca lontana. Poi, sempre con la massima calma, inizia la parte più interessante.

Dice che, boh, non ricorda come era nata la cosa ma, in effetti, a Milano a quel tempo c’erano lui, Achille (Castiglioni) e Angelo (Mangiarotti). Quello che aveva più i piedi nella segatura era lui però e questo, forse, fu  il vero motivo.

 

Iniziarono a lavorare su quell’idea: i due braccioli morbidi, ergonomici ma al tempo stesso sintetici come piaceva a lui … grafici quanto bastava per non risultare ‘troppo disegnati’.

Misero giù nove prototipi leggermente diversi. In tutti l’ampia seduta in corda, i montanti rettilinei che iniziano e terminano arrotondati, in alto accogliendo il palmo della mano, a terra ad alleggerire la massa generosa del pezzo, e infine la semplice piatta leggermente curva dello schienale. Se ne scelse uno a fatica che fu nuovamente modificato per diventare la Carimate, prima edizione.

Non avrei mai detto – conclude – che di quella sedia ne avrebbero prodotto nove milioni di esemplari.

 

Parliamo di mille cose. La casa in via San Marco con le scale mobili, Il grande magazzino dell’ATM vicino a piazza Maggi, la lunga collaborazione con De Padova fino a quando, ormai buio, tolgo il disturbo grato dell’esperienza e della vicinanza che si crea magicamente tra maestro e discepolo.

 


 

Tornando a casa, passata Piazza Cinque Giornate, lungo i fianchi della Besana, e ripensando a quell’incontro mi affeziono all’umiltà dei grandi. Ripenso a quella frase (… lui l’Achille e l’Angelo…) che – in una sintesi potentissima – faceva il ritratto di un’epoca ben precisa: quella di un paese agricolo che si stava velocemente industrializzando e  che seppe far tesoro dei suoi pochi intellettuali riuscendo, anche grazie a loro, a posizionarsi ai primi posti nell’economia mondiale.

 

Di lì a poco si sarebbe aperto il Salone del Mobile.

Un evento in un’epoca totalmente diversa da quella di cui si è parlato, del quale lo stesso Vico Magistretti sarebbe stato spettatore incredulo. A ogni modo i grandi numeri del Salone che avrei visitato non sarebbero stati nemmeno lontanamente paragonabili ai suoi numeri.

 

Vivevo una Milano diversa nella quale le dinamiche di relazione tra industria e intellettuali erano profondamente mutate. Una città, osservata e copiata dal mondo intero, che lavorava per mantenere la leadership di un mercato ormai privo di confini e, forse, anche di certezze.

 


 

Ringraziamo, il Politecnico di Milano che ha prodotto il video che proponiamo e che riporta, in parte, i contenuti di questo post.

 

 

 

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