Tra il 2000 e il 2010 ho collaborato, a vario titolo, con alcune riviste di architettura e design.
Era ancora l’epoca nella quale le riviste si leggevano sulla carta e noi architetti venivamo coinvolti nella redazione di articoli, nell’organizzazione dei piani editoriali e, a volte, anche nella direzione artistica di quei libroni, belli da sfogliare e a volte anche da leggere, che uscivano in edicola con cadenza mensile.
Periodo colmo di impegni dai quali, in silenzio e dopo aver verificato che tutto procedeva, mi sfilavo il venerdi mattina per rintanarmi in casa a scrivere e nelle redazioni fino a tarda serata a discutere di cosa bisognasse parlare o ancora, per me era il massimo, andando in giro per Milano e provincia in cerca di storie, progetti, tendenze.
Poi arrivò l’editoria digitale
Si pensò che bastasse una cartella stampa per fare un bel pezzo o, peggio ancora, una bella rivista.
Disorientati dall’effervescenza dei social, spesso abusati, molti editori smarrirono la strada e tradussero la figura del giornalista in quella del ‘content creator’.
Fu inutile mettere in guardia sulla deriva che stava montando, provare a discriminare tra cultura editoriale e contenitori di news.
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